Volti fraterni, paesaggi, esperienze, emozioni, sentimenti…

P. Angelo Campana e la terra di Albania

 

Volti fraterni, paesaggi, esperienze, emozioni, sentimenti… tutto si affolla nella mia mente come vita di Grazia; grazia che mi ha toccato con mano blanda e tocco delicato in questa terra Albanese che per molti sembra essere un luogo non vivibile.

Tradurre in parole ciò che ho vissuto in Tropoia e poi nella Zadrima, le due regioni che hanno visto la nostra presenza carmelitana è estremamente difficile e penso che adesso dopo circa tre mesi dall’arrivo, solo un linguaggio poetico potrebbe far risuonare, voci, rumori, colori e paesaggi di una terra che con le sue fatiche quotidiane cerca di andare avanti su strade sterrate dove però l’uomo sa farsi prossimo all’altro uomo.

 

Il primo volto che ci viene incontro con le lacrime agli occhi sono quelli della mamma di Emiljano; un volto materno che si prende cura della casa, della terra e delle relazioni familiari. Quel volto mi ha comunicato tutto. Mi ha fatto capire come per una madre sia estremamente difficile rimanere senza il figlio. Siamo accolti come presenza preziosa… mi viene in mente la scena di Abramo che accoglie i tre angeli… subito quel cortile circondato dalle viti verdissime cariche di grappoli violacei, che offriranno il vino nuovo, ci ristorano nella frescura sottostante e rendono il volto della mamma sereno e felice perché il figlio è nuovamente a casa. Emjliano, dal volto raggiante per l’inizio di questa avventura che ci unisce, mostra ai nostri occhi quasi bagnati da lacrime di gioia, un volto felice per essere insieme a noi frati. Ci mostra i suoi telai, la sua camera semplice al piano superiore e lì capisco la passione e il desiderio di Emiljan per il Signore. Nel silenzio della sua stanza e della campagna dagli odori e i colori di una terra che dona i frutti di stagione, Emjiliano nel chiuso della sua abitazione sperimenta e conosce nella preghiera il Signore che lo chiama a sé sulla via del Carmelo.

 

Monastero di Nenshat; la salita del Carmelo la percorriamo lentamente, con le macchine stracolme di provvidenza da portare a Dushaj, ma con gli animi entusiasti di rivedere le nostre care sorelle monache. Il monastero viene illuminato a giorno e appena entriamo la luce ci abbaglia gli occhi. I volti delle nostre sorelle luminosi come tante stelle in una notte d’estate ci mostrano come il Carmelo sia un luogo voluto da Dio per ricrearsi, per gioire e lasciar parlare la vita che batte dentro di noi. Le presentazioni subito cedono il posto alla condivisione profonda, vera, delle esperienze che andremo a fare sui monti e questo mette basi buone per una presenza semplice ancorata nella Parola di Dio e di Teresa e Giovanni.

Arriviamo in Tropoia, dopo 5 ore di viaggio su strade tortuose e dal manto stradale quasi tutto in terra battuta. La sera inizia a calare e raggiungiamo Dushaj accompagnati dall’imbrunire roseo; ad attenderci all’ingresso del paese troviamo sr. Cristiana e sr. Lia che sono in cerca di Amarilda, una ragazza di 17 anni che spesso scappa via di casa. Il volto di Amarilda, dagli occhi marroni spenti, mi si imprime nella mente. Rimango colpito… non parla, sembra una ragazza senza volto, pochi la considerano solo perché minorata e lei pur non essendo in grado di parlare, comunica con il suo corpo, il suo sguardo, quello che è il disagio, il grido di molti, di tutti. Lei non è poverina! E' una sorella! Sembra senza dignità. L’Albania ha bisogno di recuperare il volto che Gesù ha ridato a tutti. Tutti siamo fratelli perché figli di Dio…. lì capisco che c’è fame di sentirsi amati.

 

 

L’uomo appassionato. Don Antonio, sacerdote Fidei Donum di Milano, primo sacerdote arrivato in Albania dopo la morte dei martiri, ci conosce il giorno seguente al nostro arrivo. Siamo nel convento delle suore, sul tavolo i fogli del programma settimanale ci attendono per le nostre valutazioni. La voce grave e seminasale, rende il volto di don Antonio sereno con una vita vissuta spesso in solitudine e a servizio di tutti. La determinazione della suora paffuta dagli occhi celesti e con la voce soave e dall’abito perfetto, si contrastano con la camicia sgualcita e sporca di don Antonio: Si, in effetti don Antonio non ha casa (perché vive in due stanze di un palazzo semidistrutto che non ha più tetto), e che usufruisce solo di due ore al giorno di acqua non potabile. Per lui non è un problema questo, ma quanto quello che mi disse: sai p. Angelo, lottiamo per non diventare pazzi!

 

 

Le suore si mostrano attente a che noi avessimo tutti i generi di comfort, e mentre ci elencano le cose da fare e comperare alcune persone si avvicinano per chiedere dei vestiti o medicinali e così iniziamo a conoscere i primi fratelli bisognosi di vestiti, cibo, medicinali ma soprattutto di uno sguardo e talvolta di una stretta di mano che infonda fiducia.

Il giovane dallo sguardo incuriosito. Sui gradini del piccolo campetto di calcio asfaltato, in una mattinata insolita, incontriamo Ardit con i suoi compagni di classe che attendono i risultati degli esami di maturità appena superati. Ci guarda incuriosito perché io e p. Paolo Maria portiamo l’abito e intratteniamo i ragazzini con qualche canzoncina e in una avventurata partita di calcio con i “giovani cerbiatti” albanesi. Ardit mi colpisce, non solo per la sua fisionomia diversa dagli altri e la sua statura che si éleva maestosa e solenne, ma soprattutto perché mi pone domande sulla fede e su come lui si senta in un certo modo interessato a conoscere la persona di Gesù, in quanto musulmano non praticante. Parliamo, e mentre gli altri ragazzi si atteggiano come tanti piccoli attori impugnando la chitarra, mai vista dal vivo, Il giovane Ardit vuole comunicare e gira intorno a noi come un gatto che ha bisogno di attenzione e coccole chiedendoci chi siamo e che tipo di vita facciamo.

 

 

La camera vissuta. Arriviamo all’abitazione di flora percorrendo un tratto di strada sterrata circondata da coltivazioni di mais e altri ortaggi curati da Spresa, dai capelli biondo grano, sorella di Flora. Mi sembra di entrare nella foresta. Ci inerpichiamo su un viottolo con le nostre scarpe da trekking adatte a quel tipo di strada. Ad accoglierci, arrivati in cima, un cane circondato da mosche ci guarda con sguardo stupito; abbaia per annunciare l’arrivo. Subito compare una donna con le mani grosse e le unghie nere e con le braccia aperte. Sembra un grosso crocefisso ed è la mamma di Flora che indossa delle ciabatte semirovinate, unica calzatura per i suoi piedi polverosi che battono i sentieri di quella zona alla ricerca talvolta di alimenti e vestiti da dare alla sua famiglia.

 

Entriamo in casa lasciando le nostre calzature sopra i due gradini che introducono nella stanza-casa. Nella Camera dai tappeti multicolore che cercano di nascondere il pavimento in terra battuta e di rendere quel luogo accogliente, incontriamo la regina della stanza: Flora, la ragazza leucemica distesa nel suo lettino sotto la finestra, che combatte col dolore e con le mosche! La mamma le sta accanto come in una pietà... Mi vengono in mente le parole di Gv: “stavano presso la croce sua madre, la sorella…” in effetti in quella stanza tutti stanno presso flora notte e giorno; Quella stanza ci avvolge e ci comunica una cosa che spesso diciamo: le persone prima che di cose hanno bisogno di uno sguardo d’amore. Lo sguardo di Flora e dei suoi familiari ci è venuto incontro saziandoci della vera fame: la fame d’amore.

 

In quella camera eravamo tutti scalzi, con i nostri piedi sudati, impolverati, ma tutti uguali perché tutti bisognosi d’amore. Come non ricordare il suono del flauto che si disperde sui monti della Tropoia come un suono libero che vuole andare oltre quelle montagne. Lo sguardo del piccolo pifferaio, fratellino di Flora, durante il pianto del cielo sotto nubi cenerine accarezzati dalla flebile pioggia, ci incanta in un incrocio di sguardi sereni e cambiati. Qualcosa è successo! Noi siamo stati visitati nell’intimo… Iniziamo a conoscere e farci conoscere come un’unica famiglia.

 

L’altare sempre desiderato. Kokdod e la cappella di santa Prenda. Fra sentieri, torrenti e dirupi ci affrettiamo per raggiungere il luogo di incontro dove i fedeli di Bujon, Gralisht e kokdod ci attendono per la loro unica messa dell’anno. Mentre ci avviciniamo, incontriamo lungo il cammino, giovani, anziani, vestiti con i loro abiti da festa. Tutti sono felici di incontrarci e noi con i nostri volti trasudanti e paonazzi per il caldo e la salita ci sentiamo in una fase di “disintossicazione” dal modo di vivere che ci portiamo. Dopo aver formato dei gruppi per la catechesi, alcuni ci adoperiamo a preparare l’altare. Delle pietre e la porta faranno base e mensa per il nostro altare. Una tovaglia bianca sopra la quale una donna anziana pone la candela, di vera cera d’api fatta da lei e una croce di semplice legno ornano la mensa.

Il suono del campanaccio si disperde per le vallate annunciando a tutti che a breve viene celebrata la messa desiderata! Donne, bambini, anziani e giovani accorrono da varie parti come cerbiatti con i loro abiti per l’occasione e subito tutti circondiamo quella mensa che ci rende sempre più fratelli. Baciare l’altare è stato commovente e adesso che faccio memoria le lacrime solcano il mio volto. Come non ricordarlo; quasi una prostrazione per salutare Cristo che sceso così in basso si è messo accanto a noi, al nostro livello….

 

La porta sempre aperta… Aprip e la sua chiesa visitata. Mentre alcuni di noi attraversano il fiume con una barca a remi in ferro, Nadia, Fabiola e Roberto completano la sistemazione dei farmaci per creare la farmacia tanto attesa. La salita, il caldo e l’andare un pò all’avventura rendono il passo affaticato ma ristorato da delle piccole radure con delle ricche fonti d’acqua. Il nostro cammino viene facilitato dall’aiuto di un giovane di Aprip, che con le sue carpe bucate ci porta, attraversando alcune abitazioni dove ci viene offerta della buona acqua , fino alla chiesa che doveva essere un rudere. Già! In quella chiesa nessuno ha più celebrato dalla fine del regime, e molti pensavano fosse un rudere. La chiesa con le sue mura di pietra e il suo tetto di legno abitato da scoiattoli è intatta ed è visitata.  

Entriamo quasi ciechi dal contrasto fra la luce esterna e il buio interno e girandomi verso la porta immortalo, con la fotocamera, la luce che squarcia le tenebre come una annunciazione. L’altare è circondato da candele e immagini segno di una presenza orante che invoca con fiducia il Signore delle cime. Due bambine (Paola e Paolina) con la nonna dallo sguardo profondo e umile ci accoglie con una semplicità disarmante; veniamo ospitati come pellegrini che portano la benedizione di Dio e ci viene offerto Miele e Rakì, come segno di comunione.

 

Racchiudere in due pagine circa 40 giorni di missione, non è facile; allora, mi accingo alla conclusione fotografandovi le ultime due scene: la prima sempre sui monti, e riguarda la camminata alla Biescha, (alpeggio), dove dal mese di giugno fino ai primi di ottobre le donne portano le greggi ai pascoli sulla montagna e lì producono formaggio da rivendere a valle o nei paesi vicini. Una vita difficile, pesante e talvolta stremante grava sul fisico e si incarna sui volti di questa povera gente. In questa serata di fine agosto le donne della Biescha hanno sentito e vissuto la stima e l’amore cristiano. Come casa una capanna fatta di frasche e riparata con qualche pietra funge da protezione per le notti stellate sopra i volti talvolta bagnati e preoccupati per le sorti della famiglia.

A questo luogo arriviamo dopo una camminata di 3 ore e mezza e celebriamo la s. messa dopo aver contemplato il creato. Il silenzio della montagna… la brezza leggera sfiora i nostri corpi affaticati e ci dispone in cerchio, come in una danza, per celebrare l’eucarestia per le donne che si spendono a beneficio della famiglia. Il Signore guarda e ascolta il grido del povero…

 

I corpi donati. Scutari, suore di madre Teresa… dopo essere stati tre settimane in Tropoia, sui monti, siamo scesi nella Zadrima e stando dalle nostre monache, faro e sollievo per molti albanesi, andiamo a prestare il nostro aiuto dalle sorelle di madre Teresa. In questa casa mi sono sentito povero fra poveri. Bambini abbandonati dalle famiglie a causa delle loro malformazioni vengono accolti con amore nella casa di Nazareth. Sono nascosti, nascosti al mondo, ma tutti lì dentro vivono come una famiglia e le sorelle rendono quella umile casa un luogo aperto e ospitale dove l’uomo riscopre la sua umanità mettendosi a servizio dell’uomo ferito. Termino ringraziando il Signore per averci chiamato sui suoi passi, incontro a lui e all’uomo di ogni nazione e colore. Per chi volesse saperne di più, mi rendo disponibile insieme ai giovani, per testimoniare di persona e con l’ausilio di foto l’avventura che ha cambiato la mia vita.