ROBERTO

Testimonianza sulla Missione in Albania

 

Un giorno nella vita

Quando non è possibile ricostruire ordinatamente tutte le memorie la quotidianità aiuta a esaltarne alcune rispetto ad altre: ogni volta che il cielo si rabbuia ma non accenna a piovere mi torna in mente il pomeriggio in cui ci recammo a dire messa da Flora, la ragazza leucemica che qualche giorno prima avevo visto venire curata e accudita con tanto amore dagli altri.

L’affetto scambiato tra i famigliari di questa ventenne e le persone che mi avevano preceduto in missione mi sconfortava: impiegai  due settimane per lasciarmi andare e abbracciare i suoi fratelli come fossero i miei. Quel giorno invece mi sentivo ancora fuori posto e speravo soltanto che tutto andasse per il verso giusto. Quando le prime gocce caddero  sul mio capo e il volto di Flora si fece scuro per il freddo e la paura di ammalarsi, fui tentato, come mi capitò in altre occasioni, di farmi da parte. All’alleluja però, per la prima volta dall’inizio di quella visita, non vidi degli estranei attorno a me perché tutti quelli che eravamo là riuniti, dalla Sardegna alla Calabria, dalla Spagna alle Filippine, dalla Tropoia alla Zadrima cantavamo sulle stesse note, e il sorriso sulla bocca della ragazza, che così poco ci ha sempre chiesto per lenire il suo immenso dolore, riapparve prontamente.

 

 

Per tre volte ricominciò a piovere e per tre volte guardai in sù e le mie lacrime si mischiarono alla pioggia. Dall’alto il cielo tacque e alla fine della celebrazione nemmeno una goccia bagnava la felpa sdrucita della ventenne. Scendemmo in lunga schiera dalla sua scoscesa dimora con passo sicuro e con una grande serenità nel cuore. Quando invece mi vedo sfilare davanti qui in Italia qualche autorità con tutto il cordone della sicurezza il mio pensiero va a Fabian, un bambino dalla bontà quasi disarmante che ha perso il padre per via delle vendette di sangue, una sorta di legge del Taglione che colpisce soprattutto il Nord dell’Albania.

L’ultimo pomeriggio che passammo tra le montagne le bimbe del luogo ci diedero un saluto tutto speciale iniziando a percuoterci sonoramente, seppur per scherzo. All’improvviso, seguito dallo sguardo timoroso di sorelle e cugine, che come antiche donne greche vestono ogni giorno con grande dignità il loro lutto, Fabian ci si parò davanti a proteggerci deviando su di sé, senza mai rispondere, i colpi inferti da quelle ragazzine. Nel suo sguardo c’era un forte desiderio di protezione anche nei confronti di chi, come me, fino a pochi giorni prima gli era totalmente sconosciuto. Le urla di bambini che allietavano tra i monti della Tropoia le nostre giornate mi risultano ora stridule, fomentate dal rimbombo sulle volte sfarzose delle nostre cattedrali perché in effetti, fuori da ogni retorica, è cambiata l’immagine che mi porto nel cuore di Casa di Dio.

 

 

I bidoni e le travi che Don Antonio Giovannini, missionario settantenne ma instancabile, ci chiese una domenica di sistemare per rendere una sala spoglia e in costruzione il Tempio di Nostro Signore mi hanno fatto riscoprire, dopo tanto tempo, l’atto di volontà che risiede nel partecipare alla messa: le donne che sotto il sole lungo la salita per l’edificio uscivano dalle loro case e ci offrivano acqua fresca come a dei corridori in fuga, l’adunata a voce dell’anziano sacerdote milanese verso tutto il fondovalle per far venire su i fedeli, la compostezza della gente su quelle panche improvvisate che rischiavano continuamente di cedere sono tutti momenti incastonati nella mia mente. Chi mi conosce, a questo proposito, non riesce a credere che adesso io sappia a memoria il Magnificat o mi sia impratichito nella Liturgia delle Ore, viste le forti difficoltà che ho a mantenere l’attenzione.

 

Come potrei spiegare loro l’importanza che aveva, per noi in missione, riunirci dopo una giornata di varie fatiche per recitare finanche alle undici di sera con gli occhi socchiusi Vespri e Compieta tutti insieme? A declamare quei salmi in nostra compagnia ci fu per qualche giorno un ragazzo rom che aveva già prestato servizio in altre associazioni agenti in quei territori. Il suo spirito inquieto lo condusse via dopo poco senza molte spiegazioni: quando, a distanza di mesi, incrocio la sua gente ai bordi delle strade rivedo in loro la sua stessa malinconia. Nelle ragazzine che si portano in braccio ai semafori il loro figliolo non è però rimasto nulla dell’affetto materno, lo stesso donato invece con semplicità dalle bimbe che accudiscono i ragazzi disabili presso le Missionarie della Carità di Madre Teresa a Scutari.

 

Le ore che ci fu concesso di passare lì l’ultima settimana furono un regalo di Suor Giuditta, carmelitana a Nenshat da poco diventata professa semplice, la quale ci mise in contatto, tramite un altro decennale missionario, don Raffaele, con questo centro istituito dalla beata in persona. Il distacco che sussiste in Albania tra questa realtà e il mondo esterno lo avvertii nelle parole di Ludovico, che dalla Tropoia ci aveva seguito per continuare la missione nelle pianure sotto Scutari: mi disse, tenendole in braccio, che quelle creature del Signore le aveva viste sino ad allora solo in televisione. A quel punto fui io a domandarmi cosa trasmettono le nostre reti, che hanno sostituito maestri e professori d’Italiano dall’altra parte dell’Adriatico: mi vennero in mente quelle tribune politiche in cui si finisce sempre a rivangare i misfatti compiuti nel passato dalla fazione avversa.

 

 

Eppure nessuno si è mai espresso su quello che è accaduto nei Balcani prima e dopo la dittatura. Fu questo il dubbio che ebbi mentre sradicavamo le erbacce dalle steli dei martiri del regime a Krajin: qualcuno farà memoria di questi giorni o rimarranno anch’essi tra le sterpaglie del tempo? Tornato a casa mi sembrò persino che alcune delle esperienze nuove ed emozionanti che avevo lì vissuto le avrei potute scoprire forse molto prima nella mia terra. Riflettei poi sul coraggio e la voglia di cambiamento che quella gente mi aveva trasmesso e di cui un segno, già forte, in me credo sia rimasto.